È una TOP TEN un po’ diversa quella di questa settimana. In questa classifica abbiamo deciso di includere dieci luoghi del mondo che rischiano di scomparire o di mutare completamente il loro aspetto e la loro natura a causa dei cambiamenti climatici.
Alcuni ve li abbiamo già presentati, di altri vi parleremo prossimamente. La maggior parte sono isole, sì, quelle isole da sogno dove la mente ama vagare e fantasticare quando siamo stanchi e desiderosi di evasione, più o meno note, altri sono parchi nazionali, che da santuari della biodiversità rischiano di diventare deserti a causa dell’innalzamento delle temperature o del disboscamento.
1.Kiribati
Sono il primo luogo del mondo a dare il benvenuto al nuovo anno, ma rischiano di non arrivare al 2100. Sono le isole Kiribati, un arcipelago di 33 isole, di cui solo 21 abitate, che si trova nella regione pacifica della Micronesia, a Est dell’Australia e della Nuova Zelanda e a Ovest della Hawaii. Sono divise in tre gruppi: le Gilbert Islands, le Phoenix Islands e le Line Islands (o Sporadi Equatoriali). Su 33 isole, 32 sono atolli la cui altezza massima sul livello del mare è di pochi metri.
Negli ultimi anni, il livello dell’Oceano si è notevolmente alzato e più di un’isola delle Kiribati è stata sommersa dalle acque. Già negli anni Novanta sono state inghiottite dal mare le isole di Abanue e Bikeman, mentre, entro il 2025 rischia di scomparire anche la Millennium Island, famosa perché, è stata la prima a festeggiare l’entrata nel nuovo millennio.
Quello che rende uniche le Kiribati è che sono il primo luogo al mondo a vedere l’alba del nuovo giorno e, di conseguenza, anche quella del nuovo anno. Il pericolo di essere sommersi dall’Oceano è così reale e affatto remoto che è già pronto un piano di migrazione di massa per i 103 mila abitanti delle Kiribati, tra accordi con i governi dei paesi circostanti e acquisto di terre nelle isole Fijii.
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2. Tuvalu
Anche l’arcipelago delle Tuvalu, una manciata di isole e atolli situati nel Pacifico, tra l’Australia e le Hawaii rischiano di essere sommerse dalle acque dell’oceano, sia per l’innalzamento delle acque che per l’erosione del suo territorio. Proprio per questo motivo, è la seconda nazione meno popolata al mondo, poiché molti abitanti le hanno abbandonate diventando “migranti ambientali”.
Ma che cos’è che le mette cos’ a rischio? Prima di tutto la sua estensione ridotta. Con una superficie di appena 26 kmq è il quarto Stato più piccolo del mondo, dopo Città del Vaticano, il Principato di Monaco e Nauru. Il secondo fattore è la loro conformazione di atolli corallini, con un’altezza massima sul livello del mare di poco più di 4 metri, soggetti alla forza delle maree e agli effetti della salinità del mare.
La crescita del livello del mare, oggi, viene stimato di 1-2 mm all’anno. A questo ritmo, le Tuvalu potrebbero essere sommerse dall’oceano nell’arco di 50-100 anni. Per tentare di strappare la terra al mare, il governo ha adottato il principio dello sviluppo sostenibile per ridurre la propria dipendenza dal petrolio e ha lanciato ripetuti appelli ai paesi industrializzati, affinché limitino le emissioni di gas serra.
Se tutto questo non dovesse bastare, inoltre, è già pronto un piano di evacuazione che prevede il trasferimento degli abitanti in Nuova Zelanda e nelle isole vicine, secondo accordi presi con i rispettivi governi.
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3. Isole Salomone
In comune con le altre isole che rischiano di scomparire c’è la posizione nel Pacifico e la natura corallina degli atolli. Anche le splendide Isole Salomone, un arcipelago di ben 992 isole, di cui solo 347 abitate, sono tra i paradisi tropicali che rischiamo di perdere. A differenza con gli altri stati insulari, tuttavia, le Salome hanno un triste primato: cinque atolli corallini dell’arcipelago sono già stati inghiottiti dalle acque dell’oceano e altri undici sono vicini ad essere cancellati per sempre dalle mappe geografiche.
La causa è sempre la stessa: il riscaldamento globale, ma gli scienziati hanno rilevato che alle Salomone, a causa della posizione, del moto ondoso e della conformazione degli atolli, il livello del mare cresce a un ritmo più veloce rispetto alle isole vicine. Dal 1994 in poi, infatti, le acque sono cresciute a un ritmo di 7-10 mm all’anno, uno degli incrementi più alti registrati in tutto il pianeta.
A farne le spese non solo gli abitanti, che oltre alla devastazione portata dalle acque devono combattere anche contro le conseguenti epidemie, ma anche la delicata biodiversità. Le acque del Pacifico, ogni volta che si scatenano, portano con sé piante e animali presenti solo qui. Le Salomone, infatti, vantano la seconda barriera corallina più bella del mondo dopo quella delle Maldive.
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4. Isole Marshall
Lo Stato delle Isole Marshall appartiene alla regione oceanica della Micronesia e si compone di 29 atolli e 5 isole. Le isole coralline, invece, sono circa un migliaio e vanno a comporre due gruppi, conosciuti come Ralik, “isole del tramonto” e Ratak, “isole dell’Aurora”.
In comune con le altre isole di cui abbiamo scritto sopra hanno la scarsa altitudine, appena 2 metri sul livello del mare, che causa, di anno in anno, la perdita di territorio dovuto al riscaldamento globale e alla conseguente crescita del livello delle acque dell’Oceano. Si parla di un arco di tempo che va dai 10 ai 30 anni, quanto resta per “salvarle”, insieme ai circa 70 mila abitanti, che rischiano di diventare “rifugiati climatici”.
La natura delle isole è vulcanica e corallina, ma la maggior parte di esse è di piccole dimensioni, con un territorio “piatto”, letteralmente a pelo d’acqua. Gli scenari sono quelli di un paradiso terrestre, tra lagune, lingue di sabbia, acque cristalline e una vegetazione rigogliose. Tuttavia, la peculiarità delle Isole Marshall è la suo straordinaria biodiversità. Basti pensare che sugli atolli e nelle acque che li circondano vivono circa 250 varietà di corallo, più di 1000 specie di pesci diverse, oltre 70 specie di uccelli e tutte e cinque le specie di tartarughe esistenti al mondo.
Dell’ arcipelago delle Marshall fa parte anche l’atollo di Bikini, tristemente famoso per essere stato oggetto, tra il 1946 e il 1958, di esperimenti nucleari da parte degli Stati Uniti. Le radiazioni hanno poi reso necessaria l’evacuazione della popolazione. Oggi, l’atollo è stato posto sotto tutela dall’UNESCO che lo ha incluso nei siti Patrimonio dell’Umanità.
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5. Maldive
Ebbene sì, anche le Maldive, una delle destinazioni “da sogno” preferite dagli italiani, sono a rischio. Due sono le minacce contingenti per questo paradiso di 26 atolli, nati da 1190 isole coralline, di cui 93 occupate da villaggi turistici e resort, disseminate nell’Oceano Indiano, tra lo Sri Lanka e le Seychelles. Il primo è rappresentato dall’innalzamento delle acque. Il territorio delle Maldive è composto per il 99% da acqua, mentre l’altezza delle terre emerse non supera i 2 metri.
L’innalzamento degli oceani dovuto all’aumento delle temperature e al conseguente scioglimento dei ghiacci ai poli mette quindi a serio rischio l’esistenza stessa di queste isole, al punto che potremmo vederle sparire, inghiottite dal mare, tra il 2030 e il 2050. Il rischio maggiore, che renderebbe le Maldive invivibili, sarebbe “l’invasione” delle acque salate dell’oceano nelle falde acquifere potabili degli atolli. Tuttavia, anche operazioni come la costruzione di barriere e terrapieni artificiali per arginare l’avanzata delle acque, oltre che molto costosi, si sono rivelate rischiose per il delicato equilibrio della flora, della fauna e delle barriere coralline.
La seconda emergenza è rappresentata dallo smaltimento dei rifiuti Per avere un’idea della portata del problema, basti pensare che i 10 mila turisti che arrivano alle Maldive ogni settimana producono 3,5 kg di rifiuti al giorno, che si sommano a quelli prodotti dai 142 mila abitanti, circa 330 tonnellate di spazzatura al giorno. Questo enorme quantitativo, che negli ultimi decenni comprende anche materiale molto inquinante, composto dai rifiuti tecnologici, confluisce sull’isola di Thilafushi, di fatto una grande discarica galleggiante istituita dal governo maldiviano nel 1991, a soli 8 km dalla capitale Malé.
Lunga 7 km e larga 200 metri, Thilafushi si estende per circa 50 ettari, ma cresce di anno in anno proprio alimentata dai rifiuti. E il rischio è che l’innalzamento delle acque finisca per “portare via” i rifiuti più vicino alla costa, con conseguente contaminazione delle acque e di agenti inquinanti nella catena alimentare del delicato ecosistema della barriera corallina.
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6. Isole Fiji
Conformazione simile, stesso “posto nel mondo”, anche le meravigliose Isole Fiji, Stato insulare dell’Oceania, composto da 322 isole, di cui solo 106 abitate, e 522 piccoli isolotti, rischiano di soccombere a causa dell’innalzamento delle acque del mare. Una ricerca dell’Università del Pacifico del Sud, infatti, hanno evidenziato come, nell’ultimo decennio, il livello del mare si è alzato più in fretta che in qualsiasi altro decennio del secolo scorso. Secondo le previsioni, entro il 2050, il livello del mare sarà più alto di circa mezzo metro rispetto a oggi.
Tuttavia, i primi effetti dei cambiamenti climatici hanno già iniziato a farsi sentire. Tra le prime “vittime” ci sono gli abitanti del villaggio di Vunidogoloa, che hanno dovuto abbandonare le loro case per trasferirsi a circa un chilometro e mezzo di distanza, sulla cima di una collina. Il cedimento del tratto di barriera corallina che faceva da baluardo tra l’oceano e il loro villaggio, dovuto all’erosione, ha permesso alle acque di sommergere quello che prima era il centro abitato.
Lo stesso rischio lo stanno correndo gli abitanti del villaggio di Karoko, nella penisola di Kubulau, e quelli del villaggio di Vunisavisavi, che si vedono arrivare l’acqua dell’oceano fino alla porta di casa quando c’è l’alta marea. Nel villaggio di Nukui, invece, ad appena un’ora di barca dalla capitale, a causare danni è il vicino fiume, che rompe gli argini tutte le volte che viene ingrossato dalle acque del mare.
7. Isole Carteret (Papua Nuova Guinea)
Questo ex paradiso al largo della Papua Nuova Guinea vanta un triste primato: i suoi abitanti sono stati i primi profughi ambientali “ufficiali” al mondo. Negli anni Ottanta la popolazione era circa di 3300 persone, ma ora le isole sono quasi del tutto disabitate e gli abitanti costretti a trasferirsi in massa nella vicina isola di Bougainville, a circa 80 km.
In origine, l’arcipelago era formato da sei isole, poi Huene è stata spaccata in due dalle mareggiate, mentre le isole di Han e Piun sono quasi completamente state sommerse dalle acque dell’oceano, cresciute di 10 cm in 20 anni. Un problema che ha contribuito alla “fuga” degli abitanti è stata anche la perdita di fertilità del terreno, “invaso” dalle acque salate del mare.
L’aumento della salinità ha comportato la perdita di alberi di banane e noci di cocco, tra le principali fonti di sostentamento della popolazione, abituata a vivere di autosostentamento e seguendo i ritmi della natura. L’acqua salata, poi, ha raggiunto anche i pozzi, costringendo gli abitanti a raccogliere l’acqua piovana. Questo avrebbe causato un aumento di casi di malaria sulle isole
8. Seychelles
Anche le Seychelles, paradiso turistico circondato dall’Oceano Indiano, rischiano di scomparire a causa del global warming. In particolare, a soffrire è la splendida barriera corallina che protegge le isole dall’invasione delle acque, che a causa dell’aumento delle temperature e dell’acidificazione delle acque diventa sempre più fragile, perdendo la sua funzione “difensiva”.
Il fenomeno, chiamato “sbiancamento” dei coralli, avviene quando le acque del mare sono troppo calde e i coralli espellono le alghe zooxanthellae che vivono al loro interno. Se le temperature non si abbassano in un tempo ragionevole, calcolato in poche settimane, il corallo muore. Il suo “scheletro” diventa poroso e fragile e la barriera corallina si erode e cede. Le terre emerse, quindi, sono più soggette a mareggiate e inondazioni.
Gli studiosi hanno calcolato che El Niño, cioè la violenta perturbazione che colpisce periodicamente l’Oceano Pacifico, alterandone le temperature, nel 1998 e nel 2008 ha causato la morte del 90% dei coralli. Questo perché, nonostante sia prevedibile, il fenomeno non è stato “alternato” a un periodo di riadattamento delle temperature e i coralli non hanno fatto in tempo a riprendersi.
L’innalzamento generale delle temperature ha poi portato nelle isole una grave siccità, con ripercussioni sulla pesca e sull’agricoltura, attività di sostentamento principale per gli abitanti delle isole.
9. Sao Tomé e Principe
A differenza delle altre isole citate, la Repubblica Democratica di São Tomé e Principe non rischia di essere sommersa dalle acque, ma di perdere la sua meravigliosa biodiversità per mano dell’uomo. Situata lungo l’Equatore, a 300 km al largo della costa del Gabon, nel Golfo di Guinea, nell’Africa occidentale, si compone di due isole principali, São Tomé, che ha una superficie di 836 kmq, e Principe, di appena 128 kmq più sette isolotti rocciosi.
Proprio le dimensioni ridotte delle isole hanno fatto sì che, più che in altri luoghi, qui i cambiamenti ambientali abbiano messo a serio rischio l’ecosistema, la biodiversità e gli stessi abitanti. L’emergenza di São Tomé si chiama deforestazione. E la colpa è delle multinazionali che hanno sostituito la foresta equatoriale con piantagioni di palme da olio. Il prodotto principale di queste piante, l’olio di palma, infatti, è economico, redditizio e versatile, e può essere utilizzato in tutto il mondo non solo nell’industria alimentare, ma anche in un’infinità di prodotti, tra cosmetici, dentifricio, detergenti e biodiesel. Il tutto, però, a discapito della natura e dell’ambiente.
All’origine del problema ci sarebbe in non rispetto da parte delle multinazionali delle concessioni e dei vincoli ambientali. Un’inchiesta della sezione francese di Greenpeace, partita in seguito alle proteste degli abitanti di São Tomé ha rilevato come siano state abbattute zone di foresta non comprese nella concessione e che le coltivazioni di palme da olio si siano estese su terreni utilizzati dalla popolazione per l’agricoltura di sussistenza, in particolare nelle aree adiacenti al Parco Nazionale di Obo
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10. Glacier National Park
Il Glacier National Park, in Montana (USA), è un altro dei gioielli naturali che rischiano di scomparire a causa del riscaldamento globale. Con i suoi 4045 kmq è uno dei parchi più grandi degli Stati Uniti e nel suo territorio comprende due catene montuose, più di 130 laghi, cascate, centinaia di fiumi, panorami mozzafiato, più di mille specie di piante e centinaia di specie di animali diversi, tra cui grizzly, orsi neri, puma e ghiottoni.
Per capire la gravità della situazione, basti pensare che nel 1850, nel territorio del parco erano presenti 150 ghiacciai. Oggi ne sono rimasti soltanto 25. E si pensa che anche questi siano destinati a scomparire entro il 2030. La situazione viene monitorata dal Northern Rocky Mountain Science Center, che, a partire dal 1997, ha scattato una serie di fotografie per documentare lo scioglimento dei ghiacci, con risultati preoccupanti
Temperature estive che a duemila metri superano i 30°C, un aumento di 1,8°C superiore all’incremento medio globale, estati più lunghe e fiumi che si ingrossano alimentati dai ghiacciai sciolti hanno modificato l’ambiente naturale, mettendo a rischio le specie animali e i loro bioritmi.
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