Quando anche le parole sono ricordi e non vogliono essere dimenticate, schegge di un viaggio, del nostro viaggio più importante

Su questo sito pubblico varie interviste, qualcuna interessante, qualcuna meno, ma oggi ne pubblico una che è riemersa dal mio passato, dal viaggio della mia vita, che non voleva essere dimenticata.
Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata inaspettata dal signor Marco Prato, delle Edizioni “Il Saggiatore”… Cosa poteva volere da me?…Voleva incredibilmente l’autorizzazione a pubblicare una mia intervista al grande Lucio Dalla, insieme ad altre,
In libro a lui dedicato. Un tuffo nel passato lungo 45 anni. L’avevo pubblicata sull’Intrepido, (che ho anche diretto). Allora era giovane Lucio e lo ero anche io, non Raffaele, ma diminutivamente Lello.
Quella intervista, quelle parole, questi ricordi sono riemersi, proprio come pezzi di un viaggio.

1975
Predicatore pazzo o genio incompreso?
Lello d’Argenzio, L’intrepido, 24 aprile 1975

La fama di Dalla in questi anni si rafforza anche grazie all’attività dal vivo nei teatri, se pure non è accompagnata da exploit di vendite. I dischi con Roversi, in fondo, piacciono molto alla critica ma si attirano la nomea di opere «difficili».

A dispetto della barba non curata, della coppola, del suo modo di fare spavaldo e sicuro, Lucio ci appare esile e inerme. Come un piccolo orco che non fa paura a nessuno. A metà strada fra il predicatore pazzo e il genio incompreso, gode di questa sua posizione estranea, apolide, che impedisce agli altri di classificarlo e a se stesso di autodefinirsi. I suoi jeans con le toppe non sono la divisa del personaggio, ma soltanto la proiezione comoda di un pigro e di un simpatico trasandato. Lucio non cerca nelle cose, negli oggetti, nell’atteggiamento-abito una propria dimensione, perché con la marcata personalità che possiede è riuscito a incontrarsi e a piacersi. Ecco, non è un insoddisfatto, la società non gli procura alcun trauma. Lui non vede nella «gente» una grande mamma che deve proteggerlo e coccolarlo, gli basta essere coccolato dalla propria. Forse la cosa che chiede agli altri è soltanto che continuino ad affollare suoi spettacoli, perché lui al dialogo col pubblico ci tiene. Il suo non è un canto fine a se stesso, ma un’esibizione davanti a una platea. Anche nel suo ultimo interessante trentatré, Anidride solforosa, si nota questa sua recita di fronte a un pubblico inesistente. Lucio va prima sentito, risentito e poi, soprattutto, va visto.

A cosa attribuisci il successo delle tue esibizioni in teatro?
Secondo me il pubblico ha capito che io cerco di trasmettere qualcosa. Il mio non vuole essere un messaggio fra virgolette, ma piuttosto un passaggio d’idee, d’informazione, di sensibilità. E se in quei momenti sei sincero, la gente lo capisce. Puoi ingannare dieci, venti persone, ma se sei falso vieni subito smascherato, specialmente se ti rivolgi al pubblico del Teatro Quartiere, dei giovani, dove si va per sentire, non per vedere.

Quando ti trovi sul palco, per chi canti: per te o per gli altri?
Non ho dubbi: per gli altri! Non ho bisogno di salire su di un palco per sentirmi qualcuno, non ho bisogno delle esibizioni per affermare la mia personalità!

Come hai cominciato la tua avventura musicale?
Col jazz, come tu hai già scritto in un precedente articolo che mi piacque molto… anzi, avrei voluto scriverti per dirti che avevi centrato quello che io ero…

Perché hai detto quello che io «ero»?
Perché oggi sono diverso. E sono contento di esserlo, perché secondo me oggi la poesia non esiste più negli oggetti del passato, nelle nostalgie, nei tramonti, ma nel divenire, nel mutarsi, nel vivere la vita pienamente, nel fare il proprio lavoro, contenti di farlo. C’è molta più poesia in un lavoratore che ama il proprio lavoro che in un paesaggio bellissimo ma inerte.

Dunque, non più una poesia astratta, ma una poesia «positiva», vissuta e non sognata. A che servono i sogni, allora?
A niente. Oggi bisogna fare.

Di solito il cantante, invece, specula sui sogni del pubblico, le canzoni sono un continuo invito al pubblico per farlo sognare. Tu ti senti diverso?
Io il pubblico cerco di farlo pensare, di farlo ragionare, altrimenti non salirei neppure sul palco. Ma, intendiamoci, io non voglio passare per quello che canta gratis e non gli importa di guadagnare. A me i soldi fanno piacere e anche un’alta vendita dei dischi fa piacere. L’uomo deve cercare di vivere bene, di procurarsi gli agi necessari. Ciò che combatto e aborrisco è il lusso stupido, sfrontato. Io ho una bella casa, in affitto, ho il televisore a colori, i doppi servizi, la macchina comoda per trasferirmi da un posto all’altro, ma non ho il cesso con le maniglie d’oro…

Tu sei bolognese, ma vivi molto a Roma, perché?
Sia perché la mia casa discografica si trova a Roma, sia perché secondo me si può vivere umanamente oggi soltanto dall’Umbria in giù. Però devo aggiungere che se per caso sto poco bene e voglio guarire torno subito a Bologna, dove sono sicuro di trovare ospedali funzionanti… e ora voglio farti io una domanda: ti piace il mio ultimo trentatré?

Sì, molto curato, molto ricco d’idee, ma secondo me hai dimenticato di non essere su un palco dove la tua presenza scioglie i dubbi e chiarisce le idee…
Coloro i quali ritengono un po’ difficile il mio disco sono i miei amici più cari, perché poi me li ritrovo a teatro, in uno di quei teatri dove si paga al massimo millecinquecento lire.

 

Foto Credits: stonemusic.it